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Buongiorno

27.12.2021 - Buongiorno Irpinia

UMANITÀ / "Contributi" femminili tra realtà e mito: Didone

- di Gabriele Meoli -

Secondo il fascinoso racconto poetico di Virgilio, finita la guerra di Troia (1290 a.C.) con la presa e distruzione di questa città ad opera dei Greci, il superstite eroe troiano Enea, nel corso delle sue vicissitudini per mare in cerca delle proprie origini (“… antiquam exquirite matrem”), fu ospitato da Didone, regina di Cartagine, che subito se ne innamorò.

Ma il “pio” Enea, ligio agli Dei ed al Fato, che lo volevano progenitore delle future glorie di Roma, dové lasciare la bella Didone e riprendere il mare.

La donna, ovviamente, abbandonata si sentì tradita: Il suo dolor fu tale che, prima di suicidarsi, invocò odio eterno tra i suoi Cartaginesi ed i Romani discendenti da Enea, al punto che perfino le onde del mare dai due opposti versanti si sarebbero per sempre e ostilmente dovute scontrare.

Ed avendo poi il suo spirito scorto nell’Ade quel “traditore”, ivi disceso da vivo con la Sibilla cumana, non lo degnò di confidenza, volgendo altrove il suo sguardo con perdurante risentimento e subito si allontanò verso il proprio defunto marito Sicheo.

Ed invero, più di mille anni dopo, turbinose ostilità incendiarono il mondo di allora.

In una prima guerra (264-241 a.C.), i Romani, con Caio Duilio, riportarono presso Mile vittoria navale (260 a.C.) sui Cartaginesi; e, dopo il sacrificio del Console Attilio Regolo, finito in una botte di chiodi per aver dato consiglio al Senato di proseguire nelle ostilità, distrussero la flotta avversaria presso le Egadi (242 a.C.).

In una seconda guerra punica (219-201 a.C.), il giovane cartaginese Annibale, dopo aver giurato eterna inimicizia contro Roma, avuta fiducia da suo padre Amilcare Barca, in Spagna espugnò Sagunto (218 a.C.), alleata di Roma; poi, con un esercito di uomini ed elefanti, valicò Pirenei ed Alpi, dilagò nella valle padana, sconfisse le legioni romane al Ticino ed alla Trebbia (218 a.C.), al Trasimeno (217 a.C.) e sanguinosamente a Canne (216 a.C.) facendo tremare Roma, giunto ormai alle sue porte (“Provideant consules ne aliquid Res publica detrimenti capiat”); ma tuttavia non la occupò, fermandosi invece a Capua, forse debilitato dai suoi “ozi” (“tantum virum enervaverunt”) o da qualche suo “acciacco” (“Non bene altero oculo usus est”), ad anche per “timore reverenziale” verso la “città eterna”; la quale intanto, passata alla riscossa, riconquistò molti suoi territori ed espugnò Siracusa, nel cui generale eccidio perì anche il genio di Archimede, ucciso per un equivoco da un soldato romano per non aver a lui risposto in quanto assorto nelle sue scientifiche meditazioni.

Nelle more, Annibale attendeva l’invocato aiuto di suo fratello Asdrubale dalla Spagna, ma costui venne sconfitto ed ucciso dai Romani presso il fiume Metauro (207 a.C.).

Richiamato dai suoi a Cartagine per far fronte a Scipione detto l’Africano, fu da lui definitivamente sconfitto a Zama (202 a.C.), di tal che, fuggito esule in Asia minore, si diede poi la morte col veleno.

Spentasi così la terribile meteora di Annibale, magnificamente “brillata” da Sagunto e Zama non cessò tuttavia l’ostilità tra Roma e Cartagine, che anzi sfociò in una terza guerra punica (147-146 a.C.).

Infatti in Senato tuonò ripetutamente il monito di Catone il censore circa la necessità di distruggere Cartagine (“Censeo Cartaginem delendam esse”); e dopo le provocazioni fatte ai Cartaginesi dal suo alleato Massinissoa, re di Numidia, Roma portò guerra ai propri antagonisti direttamente in Africa con Scipione “Emiliano”, nipote dell’Africano; il quale espugnò Cartagine (146 a.C.) piegando la disperata ed eroica difesa dei suoi abitanti; e quella città venne completamente distrutta diventando semplice territorio di provincia romana con il nome di Africa.

Questo il Fato aveva deciso e così avvenne per la salvezza di Roma.

Chi potrà mai dire se la lunga inimicizia tra quei due popoli, con le ostilità e tante altre alterne vicende storiche, non siano derivate proprio da quella remota, disperata invocazione della moritura regina Didone per essere stata abbandonata da Enea?

Invero è nota la potenza dell’ira di una donna che se delusa o tradita, sa improvvisamente passare da un amore intenso ad un altrettanto intenso odio, anche a costo di finire all’Inferno tra i lussuriosi, come proprio per “Dido”, immaginò poi (1300 d.C.) il sommo poeta Dante.